CONSIDERATO IN DIRITTO
1. La questione di diritto per la quale il ricorso è stato rimesso alle Sezioni unite è la seguente: "Se possa configurarsi una responsabilità a titolo di ricettazione per l'acquirente finale di un prodotto con marchio contraffatto o comunque di origine e provenienza diversa da quella indicata".
2. Su tale questione non sussiste un concreto contrasto nella giurisprudenza di questa Suprema Corte, la quale non risulta essersi pronunciata ex professo su di essa.
Si registra soltanto un intervento delle Sezioni Unite (
sent. n. 47164 del 20/12/2005, Marino, Rv. 232304), con il quale, nel pronunciarsi in merito al concorso tra il reato di ricettazione (
art. 648 c.p.) e quello di commercio abusivo di prodotti audiovisivi abusivamente riprodotti (L. 22 aprite 1941, n. 633, art. 171 ter), si esamina anche il disposto del
D.L. n. 35 del 2005, art. 1, comma 7, nel suo testo originario e si osserva: "questa nuova fattispecie di illecito amministrativo è evidentemente applicabile nei soli casi in cui neppure la presupposta violazione delle norme in materia di proprietà intellettuale costituisca reato; al contrario di quanto invece presuppone la fattispecie contravvenzionale prevista dall'
art. 712 c.p., sulla quale la fattispecie amministrativa è ricalcata pressochè letteralmente, e salva la disciplina eventualmente diversa dettata dalle norme in materia di origine e provenienza dei prodotti.
Attesa l'apparente identità delle due fattispecie, in realtà, la nuova norma risulterebbe inapplicabile, ove non avesse un ambito di applicazione distinto da quello proprio della fattispecie contravvenzionale prevista dal codice penale. Infatti, come s'è visto, l'art. 1, comma 7, del decreto stabilisce che la nuova fattispecie di illecito amministrativo è applicabile solo quando il fatto non costituisce reato; ma anche l'analoga fattispecie prevista dall'
art. 712 c.p., è appunto un reato. Sicchè deve ritenersi che l'incauto acquisto di cose provenienti da reato possa integrare gli estremi della contravvenzione prevista dall'
art. 712 c.p.; mentre l'incauto acquisto di cose di provenienza altrimenti illecita può integrare gli estremi dell'illecito amministrativo previsto dal
D.L. 14 marzo 2005, n. 35, art. 1, comma 7, convertito nella
L. 14 maggio 2005, n. 80".
La sentenza delle Sezioni Unite è stata pronunciata quando il testo originario del
D.L. 14 marzo 2005, n. 35, art. 1, comma 7, conteneva, nel suo incipit, la clausola di riserva "Salvo che il fatto costituisca reato". Sul punto è rilevante citare la sentenza Sez. 2, n. 35080 del 07/07/2009, la quale dopo aver aderito alla tesi delle Sez. U, n. 47164 del 2005 (cit.), quasi anticipando le successive modifiche normative, afferma che "soltanto l'eliminazione dell'inciso salvo che il fatto costituisca reato, renderebbe con sicurezza applicabile, in tale specifica situazione di acquisto, accettazione, ecc. - ed alla luce del generale principio di specialità di cui alla
L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 9 - la sanzione amministrativa pecuniaria, eliminando il carattere inutilmente ridondante della disposizione. In questo modo la condotta di acquisto o accettazione, ovviamente, assumerebbe rilevanza - secondo i principi generali di cui alla citata L. n. 689, art. 3 - se connotata da dolo in caso di piena consapevolezza della provenienza illecita, ovvero da colpa".
Deve ancora registrarsi una sentenza pronunciata in materia di acquisto di sostanze farmaceutiche assoggettate ad un titolo di proprietà industriale, che incidentalmente esamina la disposizione del
D.L. n. 35 del 2005, art. 1, comma 7, alla luce delle novelle intervenute nel settore, in particolare la
L. 23 luglio 2009, n. 99, ed afferma che, sulla base di tale disposizione, la quale punisce con una semplice sanzione amministrativa l'acquisto di beni assoggettati a privativa industriale, "è di per sè categoricamente da escludersi che il fatto possa essere punito come reato, ostandovi all'evidenza il principio di specialità sancito dalla
L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 9" (Sez. 2, n. 14053 del 15/03/2011, Fredducci).
3. Dovendosi raffrontare il delitto di ricettazione con l'illecito amministrativo, occorre tener presenti i criteri sull'individuazione della norma speciale di recente ridefiniti dalla giurisprudenza di legittimità, posto che il concorso di norme tra fattispecie penali e violazioni amministrative è disciplinato dalla
L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 9, in base al quale, se uno stesso fatto è punito da una disposizione penale e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa, si applica la disposizione speciale piuttosto che il concorso tra sanzione penale e violazione amministrativa. Le Sezioni Unite,
con la sentenza n. 1963 del 28/10/2010, dep. 2011, Di Lorenzo, Rv. 248722, pronunciandosi in tema di rapporti tra l'
art. 334 c.p., e l'
art. 213 C.d.S., comma 4, hanno affermato che "rilevante è, nel testo dell'art. 9, la differenza rispetto all'
art. 15 c.p., laddove, invece di parlare di stessa materia, si fa riferimento allo stesso fatto. Non è, però, da ritenere che con questa formula il legislatore abbia inteso fare riferimento alla specialità in concreto, dovendosi al contrario ritenere che il richiamo sia fatto alla fattispecie tipica prevista dalle norme che vengono in considerazione, evitando quella genericità che caratterizza l'
art. 15 c.p., con il riferimento alla materia. Valgono infatti, nel caso di concorso tra fattispecie penali e violazioni di natura amministrativa, le medesime considerazioni (...) sulla necessità che il confronto avvenga tra le fattispecie tipiche astratte e non tra le fattispecie concrete. Il che, del resto, è confermato dal tenore dell'art. 9 che, facendo riferimento al fatto punito, non può che riferirsi a quello astrattamente previsto come illecito dalla norma e non certo al fatto naturalisticamente inteso".
Nel contempo Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010, dep. 2011, Giordano, Rv.
248864, in tema di rapporti tra frode fiscale e truffa aggravata ai danni dello Stato, hanno affermato che in caso di concorso di norme penali che regolano la stessa materia, il criterio di specialità di cui al l'
art. 15 c.p., richiede che, ai fini della individuazione della disposizione prevalente, il presupposto della convergenza di norme può ritenersi integrato solo in presenza di un rapporto di continenza tra le norme stesse, alla cui verifica deve procedersi mediante il confronto strutturale tra le fattispecie astratte configurate e la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definirle.
Entrambe le sentenze, dunque, chiariscono che il rapporto di specialità deve essere verificato nel confronto strutturale tra le fattispecie astratte; ciascuna di esse, poi, contiene altre importanti affermazioni di principio: la prima sottolinea che il citato art. 9 "diretto a privilegiare la specialità (e quindi l'apparenza del concorso) costituisce un'importante chiave di lettura in tutti i casi in cui, ad una condotta penalmente sanzionata, si aggiunga (soprattutto se ciò avvenga in tempi successivi rispetto all'entrata in vigore della prima norma) una disciplina normativa che la preveda anche come violazione di natura amministrativa"; la seconda invita ad "una applicazione del principio di specialità, secondo un approccio strutturale, che non trascuri l'utilizzo dei normali criteri di interpretazione concernenti la ratio delle norme, le loro finalità e il loro inserimento sistematico, al fine di ottenere che il risultato interpretativo sia conforme ad una ragionevole prevedibilità, come intesa dalla giurisprudenza della Corte EDU".
4. Per la soluzione della questione sottoposta a queste Sezioni Unite è necessario ripercorrere lo sviluppo delle modifiche legislative apportate alla norma di riferimento.
La norma base è quella introdotta con il
D.L. 14 marzo 2005, n. 35, art. 1, comma 7, come modificato in sede di conversione dalla
L. 14 maggio 2005, n. 80, articolo che porta in rubrica l'indicazione "lotta alla contraffazione" e così dispone al comma 7, nel suo testo originario: "7. Salvo che il fatto costituisca reato, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria fino a 10.000 Euro l'acquisto o l'accettazione, senza averne prima accertata la legittima provenienza, a qualsiasi titolo di cose che, per la loro qualità o per la condizione di chi le offre o per l'entità del prezzo, inducano a ritenere che siano state violate le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà intellettuale. La sanzione di cui al presente comma si applica anche a coloro che si adoperano per fare acquistare o ricevere a qualsiasi titolo alcuna delle cose suindicate, senza averne prima accertata la legittima provenienza. In ogni caso si procede alla confisca amministrativa delle cose di cui al presente comma. Restano ferme le norme di cui al
decreto legislativo 9 aprile 2003, n. 70" (l'ultimo periodo è stato aggiunto dalla legge di conversione).
Successivamente il
D.L. 30 settembre 2005, n. 203, art. 2, comma 4 bis, convertito, con modificazioni, dalla
L. 2 dicembre 2005, n. 248, ha apportato le seguenti modificazioni: "al comma 7, al primo periodo, dopo le parole: sanzione amministrativa pecuniaria sono inserite le seguenti: da 100 Euro e sono aggiunti, in fine, i seguenti periodi: Qualora l'acquisto sia effettuato da un operatore commerciale o importatore o da qualunque altro soggetto diverso dall'acquirente finale, la sanzione amministrativa pecuniaria è stabilita da un minimo di 20.000 Euro fino ad un milione di Euro. Le sanzioni sono applicate ai sensi della
L. 24 novembre 1981, n. 689, e successive modificazioni. Fermo restando quanto previsto in ordine ai poteri di accertamento degli ufficiali e degli agenti di polizia giudiziaria dalla citata
L. n. 689 del 1981, art. 13, all'accertamento delle violazioni provvedono, d'ufficio o su denunzia, gli organi di polizia amministrativa".
Infine, la
L. 23 luglio 2009, n. 99, art. 17, che reca in rubrica "contrasto della contraffazione", entrato in vigore il 15 agosto 2009, apporta, con il comma 8, all'art. 1, comma 7, citato, le seguenti modificazioni:
"a) nel primo periodo:
1) le parole: Salvo che il fatto costituisca reato, sono soppresse;
2) le parole: da 500 Euro fino a 10.000 Euro l'acquisto o l'accettazione, senza averne prima accertata la legittima provenienza, a qualsiasi titolo di cose sono sostituite dalle seguenti: da 100 Euro fino a 7.000 Euro l'acquirente finale che acquista a qualsiasi titolo cose;
3) la parola: intellettuale è sostituita dalla seguente:
industriale;
b) il secondo periodo è soppresso;
c) nel quinto periodo prima delle parole: Qualora l'acquisto sia effettuato da un operatore commerciale sono inserite le seguenti:
"Salvo che il fatto costituisca reato".
Il comma 3 del citato art. 17, inoltre, dispone:
"3. Fermo restando quanto previsto dal
D.L. 14 marzo 2005, n. 35, art. 1, comma 7, convertito, con modificazioni, dalla
L. 14 maggio 2005, n. 80, come modificato, da ultimo, dal comma 2 del presente articolo, e salvo che il fatto costituisca reato, è prevista la confisca amministrativa dei locali ove vengono prodotti, depositati, detenuti per la vendita o venduti i materiali contraffatti, salvaguardando il diritto del proprietario in buona fede".
"7. E' punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 100 Euro fino a 7.000 Euro l'acquirente finale che acquista a qualsiasi titolo cose che, per la loro qualità o per la condizione di chi le offre o per l'entità del prezzo, inducano a ritenere che siano state violate le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà industriale. In ogni caso si procede alla confisca amministrativa delle cose di cui al presente comma. Restano ferme le norme di cui al
D.Lgs. 9 aprile 2003, n. 70. Salvo che il fatto costituisca reato, qualora l'acquisto sia effettuato da un operatore commerciale o importatore o da qualunque altro soggetto diverso dall'acquirente finale, la sanzione amministrativa pecuniaria è stabilita da un minimo di 20.000 Euro fino ad un milione di Euro.
Le sanzioni sono applicate ai sensi della
legge 24 novembre 1981, n. 689, e successive modificazioni. Fermo restando quanto previsto in ordine ai poteri di accertamento degli ufficiali e degli agenti di polizia giudiziaria dalla citata
L. n. 689 del 1981, art. 13, all'accertamento delle violazioni provvedono, d'ufficio o su denunzia, gli organi di polizia amministrativa".
5. Dall'esame dello sviluppo delle modifiche legislative al testo originario si desumono elementi interpretativi per chiarire il significato della disposizione attualmente vigente.
Un primo elemento è quello che concerne gli autori dell'illecito amministrativo:
1) in origine erano puniti con identica sanzione tutti coloro che effettuavano l'acquisto o la ricezione ovvero l'intermediazione all'acquisto o alla ricezione a qualsiasi titolo e per qualsiasi finalità di cose che violavano le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà intellettuale;
2) successivamente si prevede una sanzione amministrativa "rafforzata" per gli operatori commerciali o importatori o, comunque, soggetti diversi dall'acquirente finale.
Un secondo elemento è quello relativo alle modalità dell'acquisto:
1) in origine qualsiasi acquisto, da chiunque effettuato, doveva essere avvenuto "senza avere prima accertata la legittima provenienza, a qualsiasi titolo di cose che, per la loro qualità o per la condizione di chi le offre o per l'entità del prezzo, inducano a ritenere che siano state violate le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà intellettuale";
2) tali modalità rimangono ferme anche quando successivamente si distingue tra acquirente finale e non finale;
3) con la
L. n. 99 del 2009, viene soppressa la formula "senza averne prima accertata la legittima provenienza".
Un terzo elemento di fondamentale importanza è quello relativo alla clausola di riserva:
1) in origine la formula "salvo che il fatto costituisca reato" riguardava indistintamente qualsiasi tipologia di acquisto;
2) con la
L. n. 99 del 2009 la clausola di riserva viene soppressa con specifico riferimento all'acquirente finale e viene introdotta solo con riguardo agli acquisti effettuati da qualsiasi soggetto diverso dall'acquirente finale.
Già quest'ultima modifica potrebbe essere sufficiente a ritenere la specialità dell'illecito amministrativo rispetto agli acquisti effettuati dall'acquirente finale sulla base del solo testo della disposizione vigente alla data di entrata in vigore della
L. n. 99 del 2009, in applicazione del principio formulato dalle citate Sezioni Unite n. 1963 del 2011 (v. retro par. 3), laddove si afferma che la
L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 9, è diretto a "privilegiare la specialità" in tutti i casi in cui, ad una condotta penalmente sanzionata, si aggiunga, soprattutto se ciò avvenga in tempi successivi rispetto all'entrata in vigore della prima norma, una disciplina normativa che la preveda anche come violazione amministrativa, ciò che appare evidente nel caso di specie, in cui il legislatore ha manifestato chiaramente il suo intento con una mirata e selezionata eliminazione della clausola di specialità.
Se, poi, si procede, sempre in applicazione dei principi formulati dalle citate sentenze delle Sezioni Unite n. 1963 del 2011 e n. 1235 del 2011, ad un raffronto strutturale tra le fattispecie astratte, si deve rilevare, in primo luogo, che il legislatore del 2009 ha voluto delimitare l'ambito dell'illecito amministrativo speciale al soggetto agente costituito dall'"acquirente finale", mentre i reati del codice penale (artt. 648 e 712) possono essere commessi da "chiunque".
L'
art. 648 c.p., richiede che colui che commette il delitto non sia concorrente nel reato presupposto, ma è evidente che la stessa qualifica di "acquirente finale" esclude tale possibilità con riferimento alla contraffazione quale presupposto della condotta amministrativamente illecita, trattandosi di qualifica del soggetto agente che intende escludere un qualsiasi concreto apporto causale all'attività criminosa presupposta, non solo sotto forma di previo concerto o di agevolazione, ma anche di concreta istigazione che abbia determinato l'autore materiale all'azione.
In secondo luogo, il concetto di "cose che, per la loro qualità o per la condizione di chi le offre o per l'entità del prezzo, inducano a ritenere che siano state violate le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà industriale", costituisce specificazione di quello di "cose provenienti da un qualsiasi delitto" di cui al l'
art. 648 c.p..
In terzo luogo, la formula relativa alla modalità dell'acquisto che doveva avvenire "senza averne prima accertata la legittima provenienza" - che aveva fatto porre in raffronto la fattispecie in esame esclusivamente con quella dell'
art. 712 c.p.p., che adottava analoga formula - è stata eliminata, in tal modo evidenziandosi la possibilità di configurare l'illecito amministrativo quale che sia l'atteggiamento psicologico del soggetto agente, poichè la semplice formula "inducano a ritenere" è idonea comprendere sia il mero sospetto che la piena consapevolezza della provenienza illecita del bene che si acquista; mentre non costituisce elemento specialistico "per aggiunta" il fine di profitto che caratterizza il delitto di ricettazione, posto che esso certamente è individuabile nel diversi profili di vantaggio che si propone l'acquirente finale di un prodotto contraffatto, sicchè si tratta di un elemento che appare inerente alla fattispecie delineata. Il rapporto di specialità, pertanto, sussiste sia rispetto al delitto che alla contravvenzione del codice penale, posto che, secondo quanto dispone la
L. n. 689 del 1981, art. 3, "nelle violazioni cui è applicabile una sanzione amministrativa ciascuno è responsabile della propria azione od omissione, cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa".
6. Dai lavori preparatori della legge di modifica del 2009 non si desume la depenalizzazione in parte qua solo dell'incauto acquisto e non anche dell'
art. 648 c.p., come affermato nella memoria della parte civile, la quale fa riferimento ad una "scheda di lettura" redatta dal Servizio Studi del Senato con riferimento al disegno di legge, nella quale effettivamente si osserva che la nuova norma prevede "la sola punibilità a titolo amministrativo dell'incauto acquisto da parte dell'acquirente di prodotti in violazione della disciplina sulla proprietà industriale (anzichè intellettuale)".
Infatti, il testo della
L. n. 99 del 2009, art. 17, comma 8, era contenuto, negli stessi termini, nell'art. 12 del disegno di legge n. 1441, presentato in data 2 luglio 2008, d'iniziativa del Governo.
Tale articolo, rimasto inalterato nel suo contenuto, venne stralciato, insieme ad altri articoli, con delibera dell'Assemblea della Camera dei Deputati del 5 agosto 2008 (atto n. 1441 ter) e successivamente approvato il 1 luglio 2009. Passò quindi al Senato (atto 1195-B) dove venne definitivamente approvato il 9 luglio 2009.
Ebbene, la relazione che accompagnava il disegno di legge governativo, con riferimento al suddetto art. 12, parla di norma che reca "modifiche alla disciplina sanzionatoria del consumatore consapevole". Il concetto di "consapevolezza" dell'acquirente è all'evidenza ben diverso da quello di un acquisto semplicemente incauto, mentre il riferimento al "consumatore" chiarisce che l'intento del legislatore è quello di dettare una disciplina sanzionatoria speciale riguardante appunto l'utente finale, trattandosi di una qualificazione che ha avuto ampia elaborazione nell'ambito della disciplina della tutela dei consumatori e che si riferisce strettamente a "qualsiasi persona fisica che agisca per fini che non rientrano nel quadro della sua attività commerciale, industriale, artigianale o professionale" (art. 2 direttiva dell'Unione Europea 11 maggio n. 2005/29/CE).
In ogni caso, in mancanza di elementi sistematici certi, è arbitrario ritenere che il legislatore, sopprimendo l'inciso "salvo che il fatto costituisca reato", abbia voluto eliminare la riserva con riferimento non a tutte le tipologie di reato, ma solo alle contravvenzioni; tanto più che all'eliminazione di quell'inciso si accompagna anche la soppressione dell'espressione "senza averne prima accertata la legittima provenienza", che consentiva, per questa parte, la sovrapposizione della fattispecie dell'illecito amministrativo a quella dell'incauto acquisto.
D'altro canto, la preoccupazione espressa nella memoria delle parti civili che la depenalizzazione del comportamento dell'acquirente privato consumatore finale "comporterebbe la corsa ad iscriversi a tale categoria", è osservazione di mero fatto che non può incidere nel raffronto tra fattispecie astratte; si tratta di un aspetto che attiene al campo probatorio e riguarda la corretta e prudente valutazione del giudice di merito, il quale terrà conto che il legislatore, facendo riferimento all'acquirente finale, non ha inteso semplicemente contrapporlo all'acquirente "professionale", posto che la stessa norma del
D.L. n. 35 del 2005, art. 1, comma 7, e successive modifiche, distingue quella figura soggettiva non solo dall'operatore commerciale e dall'importatore, ma anche "da qualunque altro soggetto diverso dall'acquirente finale"; pertanto, quest'ultimo deve intendersi colui che non partecipa in alcun modo alla catena di produzione o di distribuzione e diffusione dei prodotti contraffatti, ma si limita ad un acquisto ad uso personale.
7. Come si è detto, la soluzione interpretativa che attribuisce carattere di specialità all'illecito amministrativo in esame si fonda sulla progressione modificativa del testo originario della norma della L. n. 35 del 2005, art. 1, comma 7, che trova la sua sistemazione finale con la
L. n. 99 del 2009, entrata in vigore il 15 agosto 2009, così che si comprende come l'interpretazione offerta dalla citata
sentenza delle Sezioni Unite n. 47164 del 20 dicembre 2005 (v. retro par. 2) resta superata proprio dalle citate modifiche.
Del resto, la previsione di un semplice illecito amministrativo per gli acquirenti finali di prodotti contraffatti rende la normativa in esame congruente con quella relativa all'acquisto di supporti audiovisivi, fonografici o informatici o multimediali non conformi alle prescrizioni legali, in relazione ai quali la suddetta sentenza delle Sezioni Unite ha ritenuto che, a seguito dell'entrata in vigore del
D.Lgs. 9 aprile 2003, n. 68, si configuri una fattispecie penalmente rilevante a carico di coloro che effettuino l'acquisto a fine di commercializzazione, "configurandosi l'illecito amministrativo previsto dalla
L. n. 633 del 1941, art. 174 ter, soltanto quando l'acquisto o la ricezione siano destinati a uso esclusivamente personale". La sostituzione, nel
D.L. n. 35 del 2005, art. 1, comma 7, della parola "intellettuale" con quella "industriale" evidenzia il chiaro intento del legislatore di attuare proprio un parallelismo sanzionatorio tra le ipotesi di acquisto per uso personale di prodotti "provenienti" dalle violazioni dei diritti di esclusiva intellettuale e quelle di acquisto di prodotti "provenienti" dalla violazione dei diritti di proprietà industriale.
La interpretazione offerta nella suddetta sentenza, invece, mantiene la sua validità per quanto concerne l'illecito amministrativo previsto nei confronti di soggetti diversi dagli acquirenti finali.
Infatti, il legislatore non a caso per questi soggetti ha mantenuto la clausola "salvo che il fatto costituisca reato", sicchè la nuova norma risulterebbe inapplicabile, ove non avesse un ambito di applicazione distinto da quello proprio delle fattispecie previste dal codice penale, nel senso che solo l'acquisto di cose di provenienza "altrimenti illecita", ovvero non provenienti da reato, configura l'illecito amministrativo di cui al
D.L. n. 35 del 2005, art. 1, comma 7, a carico di coloro che non sono acquirenti finali.
8. Stabilito che il complesso normativo che regola nella legislazione nazionale la materia in esame configura come illecito amministrativo la condotta dell'acquirente finale di un prodotto con marchio contraffatto o comunque di origine e provenienza diversa da quella indicata, la parte civile ha posto il problema di una interpretazione del diritto nazionale conforme alla normativa comunitaria, quale si desume, in particolare, dalla direttiva n. 2004/48/CE sul rispetto dei diritti di proprietà intellettuale, oppure di un rinvio alla Corte di giustizia U.E. per la interpretazione della normativa comunitaria in materia, oppure, in via ulteriormente subordinata, di una rimessione alla Corte costituzionale della questione di legittimità costituzionale della normativa in esame con riferimento agli artt.
11 e
117 Cost..
La citata direttiva, dopo avere precisato all'art. 1 che il termine "diritti di proprietà intellettuale" include i diritti di proprietà industriale, definisce all'art. 3 il suo obiettivo, che è quello di individuare "le misure, le procedure e i mezzi di ricorso" che siano "effettivi, proporzionati e dissuasivi", ravvicinando le legislazioni nazionali al fine - come si precisa nel preambolo della stessa direttiva ù "di assicurare un livello elevato, equivalente ed omogeneo di protezione della proprietà intellettuale nel mercato interno". Secondo la tesi sostenuta dalla parte civile, ciò comporterebbe l'utilizzo di sanzioni penali costituendo esse un mezzo adeguato per il raggiungimento dello scopo. Nel citato preambolo, in effetti, si legge: "anche le sanzioni penali costituiscono, nei casi appropriati, un mezzo per assicurare il rispetto dei diritti di proprietà intellettuale".
9. La questione in tal modo sottoposta all'attenzione di questa Corte comporta, preliminarmente, ancora prima di stabilire se essa sia fondata e rilevante, l'esame di una problematica più ampia: se sia consentito un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia U.E. perchè chiarisca se la normativa comunitaria imponga nella fattispecie considerata l'applicazione di sanzioni penali ovvero alla Corte costituzionale perchè stabilisca se la normativa nazionale che prevede nei casi esaminati la configurabilità di un illecito amministrativo in luogo di quello penale sia in contrasto con la normativa comunitaria, quale parametro di costituzionalità alla luce degli artt.
11 e
117 Cost..
10. La Corte di giustizia U.E. ha chiarito, con costante giurisprudenza (da ultimo, contenente anche richiami ai precedenti, 5 luglio 2007, causa C-321/05 Kofoed) che il principio della certezza del diritto osta a che le direttive possano, di per se stesse, creare obblighi in capo ai singoli; esse non possono quindi essere fatte valere in quanto tali contro i singoli dallo Stato membro, il quale ha la scelta della forma e dei mezzi di attuazione delle direttive che meglio permettono di garantire il risultato a cui mirano.
Peraltro, tutte le autorità di uno Stato membro, quando applicano il diritto nazionale, sono tenute ad interpretarlo per quanto possibile alla luce della lettera e dello scopo delle direttive comunitarie, ma "tale obbligo di interpretazione conforme non può giungere sino al punto che una direttiva, di per se stessa e indipendentemente da una legge nazionale di trasposizione, crei obblighi per i singoli ovvero determini o aggravi la responsabilità penale di coloro che trasgrediscono le sue disposizioni" (in tali termini, sentenza sopra citata). Si tratta di un limite che deriva dai principi generali del diritto, quello della legalità della pena e quello connesso di applicazione retroattiva della pena più mite, che fanno parte delle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri e, quindi, fanno parte integrante dei principi generali del diritto comunitario, che il giudice nazionale deve osservare quando applica il diritto nazionale adottato per attuare l'ordinamento comunitario (Corte di giustizia, Grande Sezione, 3 maggio 2005, Berlusconi e altri, cause riunite C-387/02, C-391/02, C-403/02; 16 giugno 2005, Pupino, causa C- 105/03). Principi del resto, sanciti anche dall'art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (da ultimo. Corte EDU, Grande Camera, 17/09/2009, Scoppola c. Italia); dall'art. 15, n. 1, del Patto internazionale sui diritti civili e politici; nonchè dall'art. 49, n. 1, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea.
Tali principi, pertanto, acquistano particolare rilevanza allorchè si intenda far valere una norma comunitaria contenuta in una direttiva nell'ambito di procedimenti penali. Infatti, nel caso in cui i giudici del rinvio, sulla base delle soluzioni loro fornite dalla Corte di giustizia, dovessero giungere alla conclusione che le norme nazionali non soddisfano gli obblighi comunitari, ne deriverebbe che gli stessi giudici del rinvio sarebbero tenuti a disapplicare, di loro iniziativa, tali norme, senza che ne debbano chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante procedimento costituzionale.
E appunto ciò che è avvenuto:
- con riferimento alle condotte illecite di cui alla
L. n. 633 del 1941, art. 171 ter lett. d) e, art. 171 bis, comma 1, riguardanti rispettivamente i supporti audio e video e i programmi per elaboratore privi di contrassegno Siae, per l'inopponibilità nei confronti dei privati dell'obbligo di apposizione del contrassegno Siae, in relazione alle quali i soggetti agenti sono stati assolti con la formula "il fatto non sussiste", quale effetto della mancata comunicazione alla Commissione dell'Unione Europea di tale "regola tecnica" in adempimento della direttiva Europea 83/189/CE, come interpretata dalla sentenza della Corte di giustizia 8 novembre 2007, Schwibbert (da ultimo, tra le tante, Sez. 3, n. 1073 del 19/11/2009, dep. 2010, Ramonda, Rv. 245758);
- con riferimento al reato di ingiustificata inosservanza dell'ordine di allontanamento di cui del
D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 14, comma 5 ter, disapplicato, per non essere il fatto più previsto dalla legge come reato a seguito della sentenza della Corte di giustizia 28 aprile 2011, El Didri (Sez. 5, n. 26027 del 08/06/2011, Marouani, Rv. 250938; Sez. 1, n. 18586 del 29/04/2011, Sterian, Rv.
250233; Sez. 1, n. 22105 del 28/04/2011, Thourghi, Rv. 249732).
Quelli sopra citati sono all'evidenza casi in cui l'interpretazione del diritto comunitario da parte della Corte di giustizia ha comportato una sostanziale abolitio criminis, cioè un effetto penalmente favorevole nei confronti dei destinatari della norma. Ben diverso è il caso in cui si pretenda dalla Corte di giustizia un'interpretazione con conseguenze penali sfavorevoli per i singoli destinatari dei precetti comunitari.
La Corte di giustizia riconosce che "sarebbe difficile per l'Unione adempiere efficacemente alla sua missione se il principio di leale cooperazione, che implica in particolare che gli Stati membri adottino tutte le misure generali o particolari in grado di garantire l'esecuzione dei loro obblighi derivanti dal diritto dell'Unione Europea, non si imponesse anche nell'ambito della cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale", e che, pertanto, applicando il diritto nazionale, il giudice, chiamato ad interpretare quest'ultimo, è tenuto a farlo per quanto possibile alla luce della lettera e dello scopo della normativa comunitaria, ma tale obbligo di interpretazione "conforme" "trova i suoi limiti nei principi generali del diritto, ed in particolare in quelli di certezza del diritto e di non retroattività. Questi principi ostano in particolare a che il detto obbligo possa condurre a determinare o ad aggravare, sul fondamento di una decisione-quadro e indipendentemente da una legge adottata per l'attuazione di quest'ultima, la responsabilità penale di coloro che agiscono in violazione delle sue disposizioni" (sent.
Pupino, cit.). La conseguenza è che un eventuale rinvio pregiudiziale non potrebbe avere come conseguenza che una sostanziale decisione di non liquet da parte della Corte di giustizia, In quanto una normativa comunitaria "non può essere invocata in quanto tale dalle autorità di uno Stato membro nei confronti degli imputati nell'ambito di procedimenti penali, poichè una direttiva non può avere come effetto, di per sè e indipendentemente da una legge interna di uno Stato membro adottata per la sua attuazione, di determinare o aggravare la responsabilità penale degli imputati" (è questo il dispositivo della citata sentenza Berlusconi e altri, pronunciata con riferimento ad un caso in cui si chiedeva alla Corte di giustizia di verificare la compatibilità con il diritto comunitario delle nuove norme di cui agli artt.
2621 e
2622 c.c., verifica che avrebbe potuto comportare l'effetto di escludere l'applicazione del regime sanzionatorio) più mite previsto dai detti articoli).
In definitiva, non è possibile che dalla disapplicazione di una norma interna per effetto del contrasto con la normativa comunitaria, sulla base del principio di preminenza del diritto comunitario, possano conseguire effetti pregiudizievoli per l'imputato. La mancata previsione come fattispecie di reato di comportamenti che ai sensi della normativa comunitaria si sarebbero dovuti considerare come penalmente illeciti, potrebbe, al più, costituire un inadempimento del legislatore nazionale rispetto ad obblighi di fonte comunitaria, ma non consente che i cittadini dello Stato inadempiente siano perseguiti penalmente per fatti considerati illeciti ai sensi della normativa comunitaria, ma non punibili o non più punibili ai sensi di quella interna.
Questa Corte, adeguandosi a tali principi, ha ritenuto, anche a Sezioni Unite, di escludere la possibilità di un rinvio pregiudiziale, quando, appunto, tale rinvio fosse stato chiesto per legittimare un'interpretazione in malam partem della norma penale interna (Sez. 5, n. 38967 dell'11/10/2005, Galliani, Rv. 232571, con riferimento all'
art. 2621 cod. civ.; Sez. U, n. 38691 del 25/06/2009, Caruso, Rv. 244191, che ha escluso che la disciplina in tema di confisca contenuta nella decisione-quadro del Consiglio U.E. 2005/212/GAI del 24 febbraio 2005 possa essere utilizzata per estendere la confisca per equivalente di cui all'
art. 322 ter c.p., comma 1, anche al profitto del reato).
Analogamente non è percorribile la strada della questione di legittimità costituzionale. Infatti, la Corte costituzionale ha più volte chiarito che il principio della riserva di legge (
art. 25 Cost.) preclude l'adozione di pronunce con effetto in malam partem, allorchè tale effetto discenda dall'introduzione di nuove norme o dalla manipolazione di norme esistenti, ovvero dal ripristino di una norma abrogata, essendo tali operazioni riservate alla discrezionalità del legislatore, non potendo la Corte costituzionale, senza esorbitare dai suoi compiti, invadere il campo ad esso riservato dall'
art. 25, comma secondo, Cost., sovrapponendo alla scelta dallo stesso effettuata una diversa strategia di criminalizzazione (tra le tante: sentenze n. 161 del 2004 e n. 57 del 2009).
In definitiva, l'utilizzo della normativa sovranazionale va escluso allorquando "gli esiti di una esegesi siffatta si traducano in una interpretazione in malam partem della fattispecie penale nazionale" (Sez. U, n. 38691 del 2009, cit.).
11. Per completezza argomentativa, con riferimento all'obbligo del giudice nazionale di interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale, entro i limiti nei quali ciò sia permesso dai testi delle norme, deve osservarsi, in primo luogo, che la citata direttiva comunitaria 2004/48/CE nel preambolo chiarisce che essa non si propone di stabilire "norme armonizzate", ma solo di "ravvicinare" le legislazioni nazionali al fine di assicurare un livello elevato, equivalente ed omogeneo di protezione della proprietà intellettuale nel mercato interno; in secondo luogo, che la stessa direttiva, pur prevedendo sempre nel preambolo che "anche le sanzioni penali costituiscono, nei casi appropriati un mezzo per assicurare il rispetto dei diritti di proprietà intellettuale", nell'articolato definisce analiticamente le misure, le procedure e i mezzi di ricorso di natura civile e amministrativa che gli Stati membri devono adottare e solo in via residuale e aggiuntiva stabilisce all'art. 16 che gli Stati membri "possono" applicare altre "appropriate" sanzioni nei casi in cui il diritto di proprietà intellettuale sia stato violato. E' evidente la volontà del legislatore comunitario di lasciare in questo campo libertà di scelta ai singoli Stati in materia di politiche criminali.
12. Per quanto concerne il concetto di "appropriatezza" non può non rilevarsi, al fine di sottolineare la non sindacabilità in termini di irragionevolezza delle scelte di politica criminale del legislatore, da un lato, che, nel caso di specie, l'imputato è stato condannato, con sanzione sostitutiva, alla pena di Euro 2.480 di multa interamente condonata, a fronte di un illecito amministrativo che prevede una sanzione pecuniaria fino a 7.000 Euro, dall'altro lato, che il legislatore ha previsto la confisca amministrativa delle cose che violano le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà industriale, con la conseguente possibilità di procedere a sequestro cautelare ai sensi della
L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 13, comma 2. Ma soprattutto la legge dispone che alla confisca si proceda "in ogni caso"; ciò significa che la confisca deve essere disposta a prescindere da qualsiasi accertamento di responsabilità. Infatti, le cose suddette devono considerarsi "intrinsecamente" illecite, alla stregua di quelle di cui all'
art. 240 c.p., comma 2, n. 1, e di esse non può consentirsi la circolazione sotto qualsiasi forma, anche ad uso personale, a tutela non solo delle imprese che hanno interesse a mantenere certa la funzione di marchi e segni distintivi, ma anche, più in generale, della pubblica fede, intesa come affidamento dei cittadini nei marchi o segni distintivi che individuano i prodotti industriali e ne garantiscono la corretta circolazione.
A completamento del quadro sanzionatorio amministrativo deve anche rilevarsi che, ai sensi del
D.L. n. 35 del 2005, comma 8, le somme derivanti dall'applicazione delle sanzioni di cui al precedente comma 7 sono versate al bilancio dello Stato per essere riassegnate ad appositi capitoli da destinare alla lotta alla contraffazione.
13. In definitiva, deve formularsi il seguente principio di diritto:
"Non può configurarsi una responsabilità penale per l'acquirente finale di cose in relazione alle quali siano state violate le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà industriale".
14. In applicazione di tale principio, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio perchè il fatto non è previsto dalla legge come reato.
Non deve essere disposta la trasmissione degli atti all'autorità amministrativa per l'applicazione delle sanzioni per l'illecito depenalizzato, poichè la depenalizzazione è successiva alla data di commissione del fatto.
Deve essere disposta la confisca dell'orologio in sequestro.
La formula di assoluzione non consente di adottare provvedimenti relativi alla parte civile.